Diario di scuola (Daniel Pennac e l’auspicio della decrescita felice!)

 

Daniel Pennac “Diario di scuola”, 2008 ed. Feltrinelli

 

Oggi esistono cinque specie di bambini sul nostro pianeta: il bambino cliente da noi, il bambino produttore sotto altri cieli, altrove il bambino soldato, il bambino prostituto, e sui cartelloni nella metropolitana il bambino morente la cui immagine, periodicamente, protende verso la nostra indifferenza lo sguardo della fame e dell’abbandono.

Sono bambini, tutti e cinque.

Strumentalizzati, tutti e cinque.

 

Tra i bambini clienti vi sono quelli che dispongono dei mezzi dei loro genitori e quelli che ne dispongono; quelli che comprano e quelli che si arrangiano. In entrambi i casi, poiché il denaro non è quasi mai frutto di lavoro personale, il giovane acquirente accede alla proprietà senza contropartita. È questo, il bambino cliente: un bambino che, in una grande quantità di ambiti di consumo identici a quelli dei genitori o dei professori (abbigliamento, alimentari, telefonia, musica, elettronica, locomozione, tempo libero…) accede senza colpo ferire alla proprietà privata. Così facendo svolge lo stesso ruolo economico degli adulti incaricati della sua educazione e della sua istruzione. Come loro, costituisce un’enorme fetta di mercato, muove denaro (il fatto che non sia suo non conta), ha, come i suoi genitori, desideri che devono essere costantemente sollecitati e rinnovati affinchè il meccanismo continui a funzionare. Da questo punto di vista è una figura importante: un cliente a pieno titolo.

Consumatore autonomo.

Sin dai suoi primi desideri di bambino.

La cui soddisfazione dovrebbe misurare l’amore che proviamo per lui.

Gli adulti, anche se lo negano, non possono farci molto; così va la società di mercato: amare il proprio figlio (questo figlio così desiderato che la sua nascita scava nei genitori un debito d’amore senza fine) significa amare i suoi desideri, che ben presto si esprimono come bisogni vitali: bisogno d’amore o desiderio di oggetti, uno vale l’altro, giacchè la prova di questo amore passa attraverso l’acquisto di quegli oggetti.

Il desiderio di un figlio…

Già, ecco un’altra differenza tra il bambino di oggi e quello che ero io: sono stato un bambino desiderato?

Amato, sì, nella maniera della mia lontana epoca, ma desiderato?

Che faccia avrebbe la mia vecchia mamma, di cui abbiamo appena festeggiato centouno anni (ci metto davvero troppo tempo a scrivere questo libro) se le chiedessi a bruciapelo:

“a proposito, mammina, tu mi hai desirato?”.

“…?”

“Sì, mi hai sentito bene: sono stato un figlio espressamente voluto da te, da papà, da voi due?”

Vedo il suo sguardo posarsi su di me. Sento il lungo silenzio che seguirebbe. E, visto che siamo in vena di domande:

“Di un po’, come te la cavi, tu, nella vita?”.

Se tentassi di approfondire, otterrei al massimo qualche precisazione sulle circostanze:

“C’era la guerra, tuo padre era in licenza, poi ci ha lasciati a Casablanca, me e i tuoi fratelli, per partecipare allo sbarco in Provenza con la settima armata americana. E a Casablanca sei nato tu”.

O ancora, da brava madre del Sud:

“Avevo un po’ paura che fossi una femmina, ho sempre preferito i maschietti”.

Ma sapere se fui desiderato, no. A quell’epoca e nella mia famiglia c’era un aggettivo per definire simili domande: strambe.

Bene, torniamo al bambino cliente.

E chiariamo bene le cose: descrivendolo, non tento di presentarlo come un sibarita spregevole e superficiale, né tantomeno predico il ritorno al maglione sferruzzato dalla mamma, ai giocattoli di latta, ai calzini rammendati, ai silenzi famigliari, al metodo Ogino-Knaus e a tutto ciò che fa sì che la gioventù di oggi immagini la nostra come un film in bianco e nero. No, mi domando soltanto che razza di somaro sarei stato, se il caso mi avesse fatto nascere, poniamo, una quindicina di anni fa. Non c’è alcun dubbio: sarei stato un somaro consumatore. In mancanza di precocità intellettuale, avrei ripiegato su quella maturità commerciale che conferisce ai desideri degli adolescenti la stessa legittimità di quelli dei genitori. Ne avrei fatto una questione di principio. Già mi sento: Avete il vostro computer, anch’io ho diritto di avere il mio! Soprattutto se non volete che tocchi il vostro! E loro avrebbero ceduto. Per amore. Amore traviato? Facile a dirsi. Ogni epoca impone il proprio linguaggio all’amore famigliare. La nostra prescrive la lingua degli oggetti. Non dimenticate la diagnosi di Nonna Marketing: “È in gioco la sua identità”.

Come molti bambini o adolescenti che sento un po’ dovunque, avrei saputo convincere mia madre che la mia conformità al gruppo, quindi il mio equilibrio personale, dipendevano da questo o quell’acquisto:

“Mamma, devo assolutamente avere le ultime NNN!”.

Mia madre avrebbe forse voluto fare di me un escluso? Non bastavano già i miei pessimi risultati scolastici? Era il caso di rincarare la dose?

“Ti giuro, mamma, altrimenti faccio la figura del babbeo!” (Correzione: “babbeo” è un po’ datato, faccio la figura dello sfigato e non ci sto dentro! Ai suoi tempi Michel Audiard avrebbe parlato di minchione o di bamba. “Ma’, se non mi acchiappi ‘ste fanghe quelli mi pigliano per un minchione!)

E mia madre, amorevole, avrebbe ceduto.

Ma chissà se una quindicina di anni fa sarei stato l’ultimo nato di quattro fratelli? Mi avrebbero desiderato? Mi avrebbero concesso il visto di uscita?

Questione di budget, come tutto il resto.